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Giulio Turci, Ragazzo del vecchio paese, 1946

Giulio Turci, Ragazzo del vecchio paese, 1946

 E' stato più volte detto che l'incontro con Renzo Vespignani, avvenuto a Santarcangelo nel 1947, fosse stato di un certo risalto per il progresso artistico di Giulio Turci: ma a quell'appuntamento, che generò nel pittore un'irresistibile attrazione per l'inchiostro di china, per i pennini carichi di nero e confitti sui fogli quasi come bulini su lastre, l'artista approdò già dotato di ben definite e penetranti riflessioni sull'arte figurativa, fotografia e cinema inclusi. Una piccola tavola del 1946, il Ragazzo nel vecchio paese (cat. l), è prezioso compendio di preferenze, orientate non meno sulle spente tavolozze di un Carrà o di un Sironi degli anni Venti che su una sentita vocazione per volumi e forme quattrocentesche, che poi erano fondamento al rigore formale di ambedue quei grandi pittori. Masaccesco o pierfrancescano si dichiara infatti il pensiero postulato dall'obliqua teoria di case e palazzi in salita sui lunghi gradoni; ma anche il giovane, fermo dinanzi a noi sul limite del quadro, è tuttavia assorto come certi silenziosi angeli di Piero della Francesca, come l'adolescente in veste rubino nella tavola a Williamstown che, analogo al ragazzo di Turci, sta sulla soglia del dipinto per introdurre a indicibili liturgie di misteri.
Carlo Carrà, La casa rossa, 1926. Buenos Aires, Museo Nacional de Bellas Artes

Carlo Carrà, La casa rossa, 1926.
Buenos Aires, Museo Nacional de Bellas Artes

Certo, l'enigma cui sembrano alludere i toni d'oro brunito e l'incerta ora del giorno, che insinua le ombre tra archi scuri e finestre buie nella contrada deserta di Turci, non è illustrato da sacre figurazioni, e rammenta piuttosto certi scorci e vie e case disabitati e sospesi in un tempo senza azione, così come si trovano impressi in talune memorabili tarsie del Quattrocento, ancora custodite tra Romagna e Marche, a Rimini ai Santi Bartolomeo e Marino, a Pesaro in Sant'Agostino. Entrambe evocano nette cadenze di prospettive albertiane o di Piero della Francesca, e ad esse Turci sembra incline a protendersi, anche nella scelta di colori variamente modulati sui ricercati fraseggi castani dei legni. Ma dei commessi lignei il pittore non menziona tuttavia l'arcana levigatezza mentre si orienta su una materia già ispessita e generosa, aggredita da spatole piccole e gravi, che sembra desiderino rivolgersi piuttosto al varco disserrato da Morlotti su quella materia "intesa come punto generante della realtà" (Testori), che trasale infatti e si stipa con severo furore tra i vegetali inscritti da Turci nel minuscolo quadro dedicato alla moglie, eseguito nel medesimo 1946.
Piero della Francesca, Il ritrovamento e la verifica della Vera Croce, particolare. Arezzo, chiesa di San Franceso

Piero della Francesca, Il ritrovamento e la verifica della Vera Croce, particolare.
Arezzo, chiesa di San Franceso

E per lunghissimi anni, ma soprattutto nel decennio dei Sessanta, l'artista si consacrerà al rovente scrutinio della sostanza pittorica, con una schiera di terre grigie, ocra, rosa, celesti, argento, lilla, oro, ruvide, scabre, graffiate, assalite da spatole vigorose o distese con pennelli energici, ma sommesse di lumi spenti, o splendenti come polvere trafitta dal sole: il tutto messo a dimora nei suoi soggetti "in figura". Perverrà così a un equilibrio di rara elezione dove quella e non altra stesura pittorica sarà l'unico stile necessario a esprimere l'invenzione dell'immagine e la sua poetica, a suggerire una materia dinamica e germinante posta a servizio di immote e silenti iconografie affinchè meglio s'accenda, con l'unione di questi apparenti contrari sigillata nelle opere, l'arcano ermetismo di cui s'imbeve tutta la sua vita immaginativa. "Quella resistente virtù vitale ch'è lo stile", scriveva D'Annunzio, e così riprendeva Contini per Longhi; mentre "lo splendore dello stile non è un lusso ma una necessità", ricordava Cristina Campo da Léon Marie Bloy.
Mario Sironi, Paesaggio urbano, 1921. Milano, collezione Emilio Jesi

Mario Sironi, Paesaggio urbano, 1921.
Milano, collezione Emilio Jesi

A legger poi le date scritte su numerosi inchiostri di Vespignani, l'antologia espressiva dell'artista romano s'imponeva tra il 1943 e il 1946 con la violenza di forme stravolte e decomposte, grida di dolore ferino, grottesche putrefazioni, macerie, relitti: nulla insomma che avrebbe potuto carpir l'intesa di Turci, già proclive a osservare invece le difficili epifanie di ore senza nome, sotto lumi che eludono anagrafi certe e con l'occhio educato anche sulle sintesi severe del bianco e del nero, alimentato dalla grande tradizione famigliare. Come ricordavamo, il padre, anch'egli di nome Giulio, era fotografo e negli anni Venti costruì la bella Sala Eden, che fu il primo cinema a Santarcangelo, rimasto attivo per oltre mezzo secolo. L'artista dunque si nutrì, oltre che di pittura passata e contemporanea, anche di cinema, l'arte nuova dall'irresistibile destino, eccezionale mondo di inedita figurazione. Certi acquerelli del 1947, eseguiti col pennello inzuppato di china su retro di locandine di film, sembrano affacciarsi su un percorso di cinema europeo, che da Jean Renoir approda a Visconti di Ossessione (1943), ma comprende anche il primo Antoniani dei sopralluoghi sul Po (1943-'47, e 1956- '57).
Ennio Morlotti, Paesaggio a Monticello, 1941

Ennio Morlotti, Paesaggio a Monticello, 1941

La decrepita solitudine che corrode la facciata della trattoria di Giuseppe Bragana in Ossessione parrebbe discendere poi dal "réalisme lucide" di Eugène Atget (Bordeaux, 1857 - Parigi, 1927), che dal 1899 fino alla morte fotografò una Parigi deserta e minima, sdrucita e remota, lontana dai fasti anche calligrafici della mondanissima belle-époque. I suoi clichés furono acquistati da grandi artisti: Braque, de Vlaminck, Utrillo, Matisse se ne ispirarono o li studiarono per le proprie opere. Ma lo sguardo spoglio di enfasi e retoriche, attento non meno ai vicoli consunti che a personaggi di marginalissimo servizio (Il venditore di paralumi, Cristoph A. G. Lunn Collection), sarà poi motivo di intensa riflessione figurativa anche per i grandi maestri di cinema francese, come appunto Jean Renoir da cui s'avviò Visconti con l'aiutoregia di Parte de campagne (1936). Dalla Francia dunque, da Renoir o da Carné e dalle premesse di Atget, parrebbe derivare, via Visconti datato 1943, certa attitudine del cinema italiano a concentrarsi sulla sostanza pittorica di un reale secondario e discosto dai prosceni, che va a tradursi figurativamente in paesaggi desolati, in muri screpolati, in personaggi oscuri e negletti. Tale è dunque la realtà anche per Giulio Turci fin dal'41, allorché proprio sul retro di un ritaglio di locandina cinematografica per un film italiano di ordinaria evasione (La granduchessa si diverte, direzione generale di Luciano Doria), dipinse a contrasto La bottega delle biciclette, un interno affastellato di ruote, cerchioni, gomme, grezzi mobili da lavoro, dove il modestissimo operaio in ribalta, alle prese con una camera d'aria, sembra trattener qualcosa dell'epica ruvidezza d'un Jean Gabin, come fosse un proletario Efesto sorpreso nella sua ferrosa fucina.
Giulio Turci, Mia moglie, 1946

Giulio Turci, Mia moglie, 1946

E con il Figaro Populaire di Atget (Arnold H. Crane Collection), e con la Trattoria di Visconti, con quelle logore solitudini, Turci parrebbe dichiarare alleanze in Tre dietro il vetro, del successivo 1947, dove si vede anche, come in Visconti, una vecchia bicicletta appoggiata al muro, solitario relitto di umili viaggi carichi di chissà quali ignote storie umane. D'altra parte si può vedere quanto quel cinema alimentasse anche lo sguardo che Michelangelo Antonioni andava posando sui luoghi del Po: si confrontino, con le analoghe immagini di Visconti e Turci, le soluzioni formali impresse nel fotogramma scattato dieci anni più tardi, nel 1956-'57, al Caffè Vescovi di Contarina, al tempo delle ricerche per Il grido, un tono che si decanterà anche nell'obiettivo di Wim Wenders, come rivela, tra le altre, una posa scattata decenni dopo a Potsdam (Potsdam/mi richiamò il ricordo di Lisbona). Aggiornatissimo dunque anche sui timbri di generale poetica figurativa d'inizi anni Quaranta depositata in grandi difficili film, Turci sembra così dichiarare un'assoluta equivalenza tra cinema e pittura. E va detto che non a caso Turci si protese verso Visconti e i francesi, poiché non potevano non attrarlo le asciutte narrazioni e l'elusione di patetismi, con l'unica deroga viscontiana di Bellissima, tuttavia del 1951. Sarà poi da definire meglio in cosa Turci sarebbe "felliniano", come anche si è sentito genericamente dire del pittore, visto che coloro che lo affermano e anche ne scrivono non portano argomenti né forniscono prove a confronto, regola-base per qualsivoglia pur minima esegesi.
Giulio Turci, Tre dietro il vetro, 1947

Giulio Turci, Tre dietro il vetro, 1947

Poiché, al buttar solo una veloce occhiata agli anni iscritti su dipinti o disegni di Turci, troviamo che sono del 1952 le immagini novembrine e desolate di Grand Hotel riminesi e pescivendole in bicicletta e bimbo con aquilone; e sono drammatiche le Donne del mare, mentre appartengono al 1955 lo studio per un Venditore di palloni e il dipinto con Barche sulla spiaggia; al 1958 un disegno per un Uomo con gli aquiloni, e al 1959-'60 le spiagge assolate o grigie di solitudine, tutte atmosfere che forse possono rammentare Amarcord, che però reca la data del 1973, ben vent'anni dopo la redazione di quelle chine di Turci. E comunque, in generale, analogia di soggetto non significa affatto somiglianza di stile, come benissimo leggeva Duilio Cavalli nel 1972: "Anche le 'donnone' [di Turci ] che spingono le biciclette con la cassetta del pesce, hanno un qualcosa di profondamente umano, di dolce, che caratterizza la donna romagnola con la sua femminilità e il suo orgoglioso amore. Una scoperta, questa, che pur con lo stesso soggetto, ancora non ha fatto neppure Fellini". E viene il sospetto che il "fellinismo", inopinatamente citato per Turci da taluni, sia invece un "amarcordismo" tout-court, avventatamente evocato dimenticando le date, ma anche rifilato a tutto ciò che fa Grand Hotel, mare a novembre o donne extra-large-size. Lo stesso Fellini, con la formidabile intelligenza e l'ammaliante ironia di cui era ricolmo, non capiva cosa volesse dir "felliniano" (ora forse lo capirebbe meglio, visto che, post mortem, c'è anche qualcuno che, non riuscendo a far di meglio, lo ha fatto diventare una marca vinicola di Romagna): l'artista riminese è infatti patetico e straziante ne Lo sceicco bianco, I vitelloni, La strada, Le notti di Cabiria; dolce, irridente e crudele ne La dolce vita: onirico e visionario da Otto e 1/2 in poi, ma anche struggente, grottesco e sbeffeggiante, aristocratico e plebeo, carnale e spirituale, astratto e concreto, corporale e cerebrale, e avanti alla ricerca di tutti gli ossimori possibili.
Michelangelo Antonini, Il caffè Vescovi a Cantarina, 1956-'57

Michelangelo Antonini, Il caffè Vescovi a Cantarina, 1956-'57

Nella travolgente mistione dei contrari, il regista sembra precipitare la secolare vocazione al contrasto impressa nell'anima d'arte della Romagna di costa, che è greve e lieve, ruvida e dolce, commossa e austera, criptica e solare, dove tutto brulica, si cerca, s'aggrega sulla soglia del mistero poetico e dentro una nostalgia, un sentimento del ritorno dolente, di cui Fellini è immenso portavoce. Ed è irresistibile annotare come l'etimo di tutto ciò risieda ben riposto tra le recondite pieghe di una remota storia di Romagna, bizantina e ravennate delle origini, dall'illimitato tortuoso e non presagibile corso: "La storia di nessun altro stato [come quello bizantino] mostra la stessa unione di contrari, né quella di alcun'altra cultura la stessa unione di materiale e spirituale. Il dualismo è la sua nota dominante". E' indubbio tuttavia che la percezione del tempo sospeso, il senso dell'attesa, lo sguardo rivolto a carpire la bellezza là dove parrebbe esserci solo inerte desolazione, siano valori poetici distintivi non meno di Fellini che di Turci: ma in entrambi derivano dall'indole di certa schiva e impeccabile pittura riminese che in pieno Settecento, seguendo le molte ombre e la poca luce rannicchiate tra scaglie di pesci e piumaggi d'uccelli, seppe esprimere, con le memorabili nature morte di Nicola Levoli, quale mistero, quale eternità si addensino tra le ore opache di giorni qualunque, negli angoli dimenticati di stanze disadorne e sperdute. C'è poi chi, come Antoniani, nativo della metafisica Ferrara, accoglie una figurazione rarefatta, spoglia e ferma, che parrebbe rinnovare, quanto a etimi, i vuoti spaziali e la nitida politezza infissi nelle lontane prospettive del Quattrocento, lignee o pittoriche che siano; ma anche, più indietro, nell'immoto inattingibile silenzio dei mosaici ravennati, chiusi e inaccessibili a qualsivoglia corsiva semplificazione. Turci è erede di questa di questa lunga vocazione della Romagna padana e adriatica. Predispose sentieri intramati di silenzio, di enigmi tenaci, di dimesse liturgie di poche cose, storie senza fatti ideate a svolgersi alla deriva tra spazi abitati da geometrie latenti, tra dune basse e aria di scirocco, tra molli calure e cieli bollenti di grigi. Pittore ermetico e zitto, artista non fabulatorio, è, come Antoniani, serrato all'accesso di traduzioni facilitate.
Urbino, Palazzo Ducale, Tarsia nello studiolo di Federcio Montefeltro

Urbino, Palazzo Ducale, Tarsia nello studiolo di Federcio Montefeltro

Colori spenti, aria spesso immobile, i suoi personaggi stanno fermi e soli su battime deserte, volti e gesti non esprimono partecipazione ad alcunché. Quelle figure sono indifferenti anche all'aria afosa e umida, si lasciano vivere, non sono agite, accolgono il destino e aspettano, come inerti Watteau del Novecento incontrati sulla soglia di un pellegrinaggio a Citera. Ma se l'azione non c'è, questo non significa che non accada nulla. Anzi: donne, uomini, bambini, palloni da spiaggia, ombrelli, sedie, armadi, impalcature di ferro, grandi orologi, proprio in quanto consapevolmente dipinti come fossero muti appartati geroglifici, sono segni di grande dinamica interiore: "un silenzio abbandonato è ristagno: un silenzio affermato è pausa - puro intervallo - anche se infinito". Gli orologi sono fermi, i violoncelli non hanno corde e talvolta s'adagiano riposti su scansie d'armadi socchiusi, che anche proteggono memorie di sguardi sul mare, come fossero privatissime wunderkammern dell'anima: è il clima di Federico nello studiolo d'Urbino; è lo studiolo delle Pause d'Isabella Gonzaga a Mantova; sono le tarsie di Rimini e Pesaro, è la contemplazione del vuoto, è cifrata poesia funebre, estatico supremo memento mori.
da catalogo Giulio Turci - Dipinti e Disegni
Mostra promossa da:
Associazione Sigismondo Malatesta, Biblioteca Classense
Con il patrocinio del Ministero per i Beni e le Attività Culturali
Luoghi: Rocca Malatestiana di Santarcangelo di Romagna (giugno - settembre 2001) e Galleria della Manica lunga Biblioteca Classense, Ravenna (luglio - agosto 2001)
Cura Scientifica della mostra e del catalogo di Gabriello Milantoni