Antologia Critica

Flavio Nicolini
“La fedeltà tematica e il delicato impasto tonale sono i termini entro cui sembra poter schematizzare, a prima vista, i significati e il valore della pittura di Turci. Ma sarebbe un profilo estremamente improprio e generico, se non si tenesse conto che sono proprio la puntigliosa insistenza del tema e la sua funzione cromatica a definire queste marine da un angolo visuale particolare, testimoniando, oltre i limiti del genere e della maniera, una mitica idea della stagione del mare, filtrata attraverso l’umore poetico di una delusa memoria. Penso alla nostalgia che rievoca in noi la “marina”, questo invito, nella nostra infanzia, ad un’epica naturistica, risolta a buon mercato alle porte di casa (Igea, Torre Pedrera, Bellaria), ma non per questo meno entusiasmante; al senso acuto di festa che rivestivano, per vecchi e giovani, vent’anni fa, espressioni come “siamo andati a marina” e “a marina c’eravamo tutti e ci siamo divertiti un mondo”. Da questa carica di nostalgia nasce la pittura di Turci: una ricerca volta a rinvenire il gusto domestico e paesano di un tempo perduto, distrutto dalla estroversa dinamica del costume balneare moderno; uno sguardo retrospettivo che dà il senso di una perdita e della sua inevitabilità. Di qui il particolare risultato pittorico: la luce filtrata e tenue, che sfiora le distese di sabbia, che non sembra provenire dal cielo; gli esili gambi degli ombrelloni deserti che si ergono come fiori esotici, simbolo quasi di uno smarrimento; le vecchie coperte rattoppate e consunte, stese a fare da riparo a personaggi immobili e silenziosi; i gruppi in posa sul moscone muti come vecchie fotografie ricordo. Davanti a questi quadri ci si aspetta ad ogni momento che un soffio divento animi il paesaggio (talvolta si crede di intravvederlo nella luce bassa dell’orizzonte), faccia oscillare i gambi sottili degli ombrelloni, scuota gli orli delle coperte o corra radente fra le erbe secche delle dune e solletichi la pelle de i personaggi affiocati sotto il sole come vecchi “lama” in meditazione. In questa attesa di un impossibile miracolo, in questa attonita speranza a ritroso, dove cose e persone, immerse in un ambiente dal quale è escluso il pulsare del tempo, mantengono pur tuttavia la loro precisa strutturale evidenza, si colloca l’umore poetico della pittura di Turci”.
Da “Presentazione della mostra a Verona- Galleria d’arte S. Luca, 17-26 aprile 1961”.

Jole Simeoni Zanollo
“La favola di GIULIO TURCI viene dal mare. È lungo racconto intriso di salsedine e di bagliori d’argento. Queste spiagge possono apparire perfino un pò monotone, animate solo da strane figure e fiorite dei più poveri ombrelli del mondo. L’autore cerca i lembi sabbiosi più liberi e deserti, ignorati dal lusso e dalla moda, timidamente raggiunti da gente stanca o malformata che ha il triste pudore della propria deficienza fisica. Solo il pittore di Santarcangelo la snida senza offenderla, la segue senza schermo; ne fa anzi simboli e protagonista delle sue tele. Ora è il sonno del cocomeraio, il capo reclino su una rozza panca; ora l’ombrello cremisi, immenso e sgangherato, che ripara il povero diavolo e la sua ora di beatitudine immemore; o i musicanti per interminabili concerti al mare. Ma quale triste ironia in “Séparé”: povero “séparé” di quattro palmi di sabbia, chiuso da una tenda sbilenca e da una malconcia palizzata di canne. Veramente Turci è maestro nel descrivere tali umili cose. Ma se le sue non sono che marine povere, il senso dell’infinito è di luminoso risalto. E ovunque gli ombrelli, le muraglie, il pallonaio, l’orticello a mare, i baldacchini di vecchie tende gonfie di vento, i ciuffi d’erba riarsa sulle dune. Ovunque, questi mari pallidi illuminati da riflessi remoti. E una carica di tenerezza nostalgica che investe e trasfigura un tempo lontano”.
Da “Vita Veronese”, a. XVI, aprile 1963, pp. 163-164.

Luigi Pasquini
“Osservo le composizioni: spiagge di periferia, caratterizzate da bagnanti coi vestiti addosso, da ambulanti, da marinai, da barche in secca e sulla riva,da capanni, da muri coi panni stesi, da altalene, da pallonai, da stecconate, da ombrelli, tanti ombrelli…
‘Sono i bagnanti della domenica’ suggerisce Turci, ‘i bagnanti della mia fanciullezza, gli ortolani sui lidi di fortuna, al limite degli appezzamenti della terra di nessuno, dove, riparati dalle paradosse di stuoia, coltivano le zucche, du foj d’insalèda, un pumidòr, un mazz d’radisèin e du zocle d’àj… Osserva i loro ombrelli, i figli legittimi della spiaggia: i lunghi manici sottili escono dalla sabbia come canne. I miei personaggi fanno il bagno, mangiano, bevono al collo del fiasco, ascoltano la musica del mare e quella dei trovatori, riposano. Chi mi trascina a ricrearli così, come li vedi, è una forza misteriosa. Non so renderli diversamente. Il modo stesso di disegnarli è il mio stile: un segno, forse, costituito dalla intima reazione suscitata in me dal timore che la labilità dell’immagine, stampata nel mio cuore, sparisca dalla memoria prima d’averla concretata sulla tela… Guarda gli Sposi della Brancona, sulla porta della chiesa, con gli invitati e le biciclette a mano, invitati che non c’entrano, si sono invitati da sè. Io li ho visti parecchie volte. Guarda il suonatore di violoncello sulla spiaggia, solo di notte…’
Esce la pittura musicale: sigla inconfondibile, stile del pittore -dico pittore!- Giulio Turci. Che non è dir poco, per l’artista e per l’uomo, nello squallido emporio collettivistico contemporaneo”.
Da “//Resto del Carlino” (cronaca riminese), 24 dicembre 1964.

Giuliana Mazzarocchi
“Per chi sente acutamente il disagio in cui si dibatte non solo e non tanto l’arte moderna, ma l’estetica figurativa roboante di parole ma aliena da ogni vera umanità, pensare a Giulio Turci operante in Sant’Arcangelo antico, isola medioevale ai lati della via Emilia risonante di rumori, e vedere le sue opere così onestamente fedeli a sè stesse, è quanto mai riposante e specialmente consolante.
Così ritroviamo sempre nei suoi quadri la storia ideale dei suoi pensieri, delle sue emozioni e dei suoi ricordi, e possiamo rispecchiare la nostra nella sua umanità. Davanti a queste opere di Turci, sarà come prenderlo per mano e camminare assieme per le sabbie assolate e godere quel mare antico e solitario, che ormai è un ricordo.
Vedremo le spiagge, le tende improvvisate da lenzuoli, i canneti di divisione, le vernici dei mosconi scrostate dal sole; sentiremo l’afa del mezzogiorno d’estate che ci appiattisce nella sabbia, ci annulla nel creato, facendoci divenire atomi del tutto; ameremo i muri lunghi in prospettive infinite, l’orizzonte basso e lontano, la vela tesa, i pescatori goffi e dondolanti, le donne un pò sfatte, ma proterve, di una plebe che ancora non ha conosciuto il miracolo economico e viene felicemente “a marina” in bicicletta.
Ma conoscere l’uomo Turci è opportuno, se non indispensabile, per giungere a sentire tutto il fascino sottile che emana da questi cartoni e legni apparentemente dimessi nella propria intimità gelosa. Ed ecco allora il suo riserbo, i suoi timori, le sue esitazioni dinnanzi ai problemi dell’arte, la sfiducia che ogni tanto lo coglie se paragona il proprio mondo, che gli par si piccolo, alle presunzioni di ogni genere, trasudanti da tante manifestazioni d’arte individuali e perfino, contraddizione in termine, collettive.
Alle pitture di gruppo di cui la Biennale, e non solo la Biennale, si gloria, che cosa oppone il pittore isolato, che cosa oppone Turci?
E’ coraggio, o umiltà, osare ancora mostrare, narrando col pennello, il proprio mondo di ricordi e di sentimenti che la nostalgia colora di mito, quando esperimenti meccanici, materici, elettrici, cibernetici, musicali perfino, di individui ponderosamente raziocinanti e scarsamente dipingenti occupano le pareti delle mostre e suscitano gli ammirati consensi di tanti critici?
lo direi che è coraggio, è doveroso coraggio; è amore non solo per la propria opera, ma per la pittura in genere che è nata sempre, e non potrà non nascere ancora, da un insopprimibile bisogno dello spirito creativo dell’uomo di dare un volto ai propri fantasmi”.
Da “Present. della mostra a Bologna – Galleria d’Arte Indipendenza, 27 marzo – 7 aprile 1965 “.

Nino Pedretti
“Sotto la coltre spessa della memoria sta una città sepolta dove a volte pesca la sonda del sogno. Chi s’accosti alle discrete finestre notturne che sono i dipinti di Turci vede emergere questo paese e lo coglie un pauroso, piacevole stupore.
Poichè è una luce che tutti sappiamo di aver vista, ma dove e in che luogo? È la luce come appare nel sogno. E in queste aure oniriche e falbe, in questo lucore senza sorgente, stanno per sempre assortigli oggetti che Turci dipinge con grande sicurezza disegni. Ma la sua bravura, la sua spinta poetica è d’altra vena. La si scopre oltre che nella qualità della luce, nell’invenzione a sorpresa che ci dà un volo di aquiloni in un cielo di mezzanotte o l’apparire di quei cari fantasmi che sono i gruppi de i matrimoni sulla spiaggia, o gli uomini chini in orti incredibili o, ancora, i musicanti al cospetto di un mare fangoso in un bagliore di muraglia. Ecco una Romagna lontanissima e surreale – un caro e doloroso paese – dove si ritorna per queste finestre a guardare il tempo inenarrabile, le memorie tenute accese, come in piccole stanze segrete, da amorose luci a cerchio della notte”.
Da “Presentazione della mostra a Verona – Casa di Giulietta, 16-30 giugno 1965”.

Ugo Moretti
“Una nebbia umida, tiepida, tenera, si stende sui paesaggi e sui personaggi di Giulio Turci identificandone a prima vista la patria e, insieme, i sentimenti. Raramente un artista è così esplicito nel rendere un ambiente ed è senza dubbio l’aperto affetto per la sua terra di Romagna che forma il carattere di questa pittura affettuosa, malinconica, limpida e forte. Nelle albe appena toccate dall’oro del sole, sulla morbida e desolata riviera i personaggi di Turci si raccolgono in gruppo,in serrato colloquio, uniti nell’attesa comune dinanzi a un mare senza vento e senza vele, e la suggestione compositiva conferisce alle figure dei pescatori e delle donne una solennità di coro arcaico al quale fa da fondo la lenta musicalità della risacca. L’apparenza monocroma di queste atmosfere nelle quali Turci immerge le sue figure annullandone quasi i lineamenti fino a mascherarli di mistero non tragga in inganno l’osservatore: esse sono il risultato di finissimi impasti, e i volti si coprono d’ombra per dare risalto alla plastica dei gruppi senza però perdere nulla dell’espressione. A controprova si vedano i disegni tutti resi da un modulare di penna rapido e preciso,con simulazioni cromatiche di mezza tinta, puntigliosamente composto di tratteggi e di pause tra gli spazi bianchi entro cui le sue figure si muovono con maggiore sensibilità e più deciso carattere. Concludendo queste considerazioni che non voglio protrarre perché sarebbe un limitare la grazia di questo pittore alla bravura, a me sembra che Turci abbia raggiunto una maturità non soltanto tecnica e strumentale, ma anche di pensiero e di coscienza: insomma è un artista che sa bene ciò che vuole e conosce i mezzi per raggiungere nell’opera il mondo ideale che la sua esperienza umana gli consegna e che egli riconsegna a noi in quadri pieni di emozione, dolcissimi nel colore e sanguigni nella struttura, come la sua natura romagnola calda, nobile e attiva”.
Da “Il Poliedro “, a. 111, febbraio-marzo 1966, p.7.

Luciano Budigna
“Giulio Turci – quale con i suoi dipinti e disegni si pone con piglio sicuro, e, vorrei dire, ormai non senza autorità, nella prospettiva della nostra pittura contemporanea – questo Giulio Turci – assai garbato, ma anche assai «cattivo», cioè crudele, pittore di spiagge romagnole (da Rimini a Gabicce, da Cervia a Cattolica quanto costume italiano – il «Ciclista» Panzini, il severo Moretti, donna Rachele giovane, e altri forlivesi di buona e meno buona memoria – ha grondato sudore e vita, denaro e amore in quest’area di pescatori e di contadini!), questo Turci che, dicono i dépliants delle sue mostre, è nato giusto cinquant’anni or sono a Santarcangelo (sì, proprio dove appare – la citazione è di stretto rigore quando vi si passa – «l’azzurra vision di S.Marino»), questo Turci, dunque, è, a mio avviso, – soltanto questo mi premeva affermare qui, e finalmente ci sono arrivato – un pittore.
Le polemiche antibiennalesche, antiastratte, antinformali – che altri esegeti dell’arte di Turci hanno, del resto giustamente, impostato – mi interessano in questo caso assai poco; come assai poco m’interessano i rilievi e le connotazioni di certi «contenuti» per elettive affinità, oltre che per anagrafica circostanza, felliniani (se mai, tanto per restare in zona, estetica e geografica, potrebbe essere utile tentare un discorso che in qualche modo coinvolga pittori quali Sughi e Cappelli)… i «riscontri» fra Turci e Fellini (le enormi donne sfatte e violentemente sentimentali, gli ombrelloni multicolori, i magici venditori di palloni, le cabine sontuose e squallide, la sabbia, la sabbia e l’erba nella sabbia, i cespugli nella sabbia, la particolare definizione somatica della bellezza muliebre, la particolare definizione morale degli umori popolani: il tutto riscattato dalla propria effimera realtà grazie al costante intervento d’un’incantevole musa fantastica e ironica) non hanno maggior peso delle «relazioni» fra, appunto, Garcia Lorca e Salvador Dalì”.
Da “Presentazione della mostra a Milano – Galleria d’Arte Gussoni, 3-12 maggio, 1967”.

Filomena Cerqua
“L’artista sa avvolgere la spiaggia deserta, intorno alla barca solitaria, in un’atmosfera lontana; sa infondere una sensazione di «Strano» in ciò che è familiare; il colore conserva la sua prevalenza e il suo splendore nella estrema semplicità, nelle tonalità graduate e intonate all’ambiente pittorico che è poi sempre l’amato mondo di «provincia», l’ambiente marino o campagnolo che sta attorno al «paesello» antico. Il modo di dipingere di Turci, quel suo descrivere una vita rustica e solitaria, pur rimanendo simile durante il passare degli anni, pur restando vigorosamente solida, si fa più ricercata, più sapiente direi, con un pizzico di allegria e di umorismo… Ora il canto del colore fa raggiungere nelle tele una espressione di calma e di felicità; dalla meditazione sofferta si passa a momenti poetici. Gli ombrelli, più snelli s’intrecciano in un volo leggero, cadendo in un gioco di volteggi e di colori come foglie e petali, nella armonia del disegno abile e sottile che dà al quadro un carattere inatteso e pieno di poesia. L’artista nell’ansia del dipingere diventa poeta e canta voli di palloni che sembrano rotolare sulla sabbia in una danza ritmata dal tenue soffio del vento”.
Da “TuttoSantarcangelo”, a. IV, n. 12, dicembre 1970, p. 1.

Italo Cucci
“Nella soffitta ci sono tele, cavalletti, colori, l’armamentario del pittore insomma; ma si nota il violoncello, che, pur muto, pare inondare il piccolo ambiente di dolenti note, di sussurri amari; e presso il violoncello il giradischi (stereo) che, posto fra un paio di tele raffiguranti donnone di Romagna dal seno prosperoso e dai fianchi opulenti , evoca valzerini rurali, polche e mazurche. Faccio dunque notare a Giulio Turci – ormai pittore di fama, celebrato dai critici e dai galleristi, felice di gloria e di danaro – la preponderanza della musica sulla pittura nell’ambiente del suo lavoro, delle sue creazioni artistiche.
Giulio mi ripete quel che già sapevo: prima di dipingere i suoi pallonari e quelle donne dal volto marcato, di una bellezza sfrontata e spassionata insieme, come fanciulle che non dan peso alla loro avvenenza, si ascolta Vivaldi ed altre musiche; dalle quali trae forse i colori mai vividi, sempre trattenuti dall’esplosione in toni accesi. l colori dell’autunno o della primavera, le mezze stagioni che la gente dell’Adriatico ama nella solitudine che li fa sentir padroni. l colori che un pittore di Romagna cerca e ricerca per trasmettere agli altri anche il senso di beatitudine o di tormento che lo prende davanti al mare di piombo, alle spiagge deserte, ai viali battuti soltanto da coppie innamorate.
Il violoncello? “Ogni tanto mi siedo qua – dice Turci – e suono. Non c’è nulla che possa darmi l’assenza dal mondo e la concentrazione per la mia pittura come il violoncello”. Dilettante? – gli chiedo -. E Turci ride, un riso furbo da ragazzo. Mi mostra – a una parete, proprio accanto ad una tela raffigurante una teoria di violoncellisti presi da una fuga bachiana, veloci e sfuggenti come le auto della Millemiglia – un manifesto ingiallito: “Orchestra Romagnola Turci”.
Da “l Resto del Carlino”, 30 dicembre 1974, p. 3.