Biografia

La vita di Giulio Turci
GIulio Turci nell'inverno del 1929

GIulio Turci nell'inverno del 1929

Una fotografia scattata a Santarcangelo al tempo del celebre "nevone", disceso sull'Italia nell'inverno del 1929, ritrae Giulio Turci a dodici anni: fermo, ritto, serio, ha le braccia conserte e serrate sul petto, la gran sciarpa annodata al collo, il cappellaccio floscio calcato sul capo, l'ampio maglione indossato con noncuranza. Alle sue spalle s'adagiano campi di neve bassa, alberi spogli, una breve collina di pochi cipressi: attorno è il vuoto, non c'è persona, non c'è nessuno che strappi quell'aria gelata e remota. Sembra un fotogramma di una presagio, calato a visitar la giovinezza e lì rimasto: a quel tempo Turci si dedicava al violoncello, che per anni studiò nei Licei Musicali di Rimini e Pesaro. Ma non tardò a pervenirgli una diversa urgenza che presto iniziò a tradursi in disegno e poi in pittura, dove la poetica geometria delle dorme musicali, soprattutto di Bach, Haydn, Mozart, Vivaldi, da lui prediletti, avrebbe potuto sostanziarsi in immagine. E molti suoi quadri, voltati dal freddo affilato della campagna d'inverno alla molle calura delle spiagge d’estate, avranno personaggi che staranno come sta lui in quella posa premonitrice, infissi e zitti sul confine di spazi inerti. In famiglia, provvista di una speciale attenzione per le arti, il giovane trovò quanto potesse desiderare: il padre, anch’egli di nome Giulio, era clarinettista, ma anche avviatissimo e benestante fotografo con una rabdomantica passione per il cinema. Negli anni Venti, insieme con Caio Carlini, nonno del ben noto attore Paolo, edificò l’Eden, prima sala cinematografica di Santarcangelo, tutta liberty leggero e decidi di stucco, anche per più di mezzo secolo rimase attiva ancora esiste, assai elefante, trasformata in civile abitazione. La madre di Turci, poi, Maria Sarti, era stata attrice a Plymouth nel 1910, nel corso di leggendario viaggio americano intraprendo nel consorte.
21 maggio 1910, Maria e Giulio Turci, genitori dell'artista, recitano a Plymouth

21 maggio 1910, Maria e Giulio Turci, genitori dell'artista, recitano a Plymouth

Negli anni Trenta, per l’irresistibile avocazione alla pittura, Giulio junior poteva poi aver disponibili nella vicina Rimini un buon numero di artisti di grande qualità cui fare, nel caso, riferimento: di Francesco Brici a Gino Ravaioli a Luigi Passaquini; ma furono le spatole cézaniane e i paesaggi plumbei di Emo Curugnani a esercitare una certa attrazione sul giovane romagnolo, mentre ricco di ammirazione, fu nel dopoguerra, l’incontro datato 1947 con il geniale ventiduenne Renzo Vispignani, in visita a Santarcangelo. Tuttavia fu sulle opere di Carrà, Sironi, Morandi e sulle soluzioni figurative del bianco e del nero impresse nel cinema del grande realismo francese e del promo dei Visconti, di Ossessione, nonché sui testi supremi del Quattrocento italiano, da Piero della Francesca a Paolo Uccello, che Turci volle soffermarsi in profondità. Attentissimo all’arte antica, contemplò a fece proprie anche tutte quelle opere, conservate a Santarcangelo, in cui poteva riflettersi la suo indole, portata ad apprezzare climi assortiti e sospese melecolie, dal trecentesco Crocifisso riminese, struggente come cero votivo, alle elegantissime cifrature stilistiche del Plittico di Jacobello di Bonomo, datato 1385, al San Nicola Abate e Sant' Isidoro Agricola, sommessa, compunta lirica seicentesca del Centino, al San Giuseppe, il Bambino e Sant' Eligio, tela imbevuta di silenti presagi dipinta da Guido Cagnacci nel 1635: tutte opere custodite nella Collegiata della Beata Vergine del Rosario. Come dimostrano dipinti e disegni, la reticente natura mercuriale di Turci lo spingeva tuttavia a cercare altrove fonti del proprio progresso, che raccoglievano, oltre ciò che si è detto, percezione riassunte in alcuni travolgenti luoghi adriatici, dal Tempio Malatestiano e dalle quattrocentesche tarsie ai Santi Bartolomeo e Marino di Rimini, alle melencolie d'oro e palude di certa Ravenna silenziosa e ferma, fino a Pesaro, città criptata di presagi, dove il sole risplendette anche di notte (Nocte species, solis Pisauri adfulsit, si legge nel Liber prodigiorum di Giulio Ossequente scritto al tempo bizantino della Pentapoli, nel 591). Dal capoluogo marchigiano, mori- bunda ab sede Pisauri (da una città destinata a morire: Pesaro) proveniva quell'uomo che a Catullo (Carmina, LXXXI) sembrava inaurata pallidior statua (più pallido di una statua dorata): e qui Turci si lasciò incantare non solo dai mirabili commessi lignei in Sant'Agostino, ma anche da una certa Pesaro sotterranea ed ermetica racchiusa nelle figurazioni dell'antico pavimento musivo della Cattedrale. Da tutte queste esperienze l'artista dedurrà il proprio inconfondibile tratto, venato di distillati succhi metafisici.
Nell'atelier agli inizi degli anni sessanta

Nell'atelier agli inizi degli anni sessanta

Straordinario, a Santarcangelo, fu il suo rapporto, intessuto di taciturne intese, con due personaggi di rarissimo profilo, il conte Gaetano (Lele) Marini, raffinato cultore di teatro, e la zia di questi, la celebre e celebrata attrice Teresa Franchini: negli anni Cinquanta, dopo aver abitato nella casa di via della Cella, vicino alla Rocca e di fronte alla Celletta Zampeschi , Turci si trasferirà nell'antico palazzo dei Franchini-Marini in via Molari, dove risiedevano anche Lele e Teresa, che nell' l"ultima parte della vita vi si era ritirata a far scuola privata d' Arte Drammatica. Nel frattempo, e da anni, Turci aveva intrapreso una densa attività espositiva, inaugurata nel 1942 con la partecipazione alla Mostra Interprovinciale di Forlì, proseguita nel 1945 alla Mostra Interprovinciale d ' Arte ancora a Forlì , nel 1951 a Bologna e nuovamente a Forlì, e nel 1952 alla prestigiosa Accademia dei Filopatridi di Savignano sul Rubicone, dove peraltro gli venne conferito il premio Bianco e Nero per la grafica. E tra gli altri numerosi riconoscimenti distribuiti negli anni successivi, ricordiamo almeno il primo premio alla "Mostra del disegno" di Ferrara nel 1957; il "Città di Terni" nel 1959 e 1960; il " Silvestro Lega" nel 1960 a Modigliana; il "Premio Marche" nel 1961 e nel 1964 ad Ancona; il Premio Regionale d'Arte "A.Giovannini" a Bologna nel 1963; il "Premio Suzzara" nel 1966, nel 1968 e nel 1970; la medaglia d ' oro del Senato della Repubblica Italiana ricevuta a Cesena nel 1970 alla prima rassegna nazionale "Arte e Turismo". Le numerosissime mostre lo condussero a più riprese, oltre che in regione (a Ravenna nel 1958, 1964, 1966, 1967 ; e poi a Bologna, Ferrara, Reggio Emilia, Rimini e così via), anche a Roma, Milano, Brescia, Mantova, numerose volte a Verona, e Carrara, Perugia, Montecatini, Sanremo. Espose poi anche all'estero: alla Piccadilly Gallery di Londra e alla Wittemborn Gallery di San Francisco nel 1963; alla Galleria Comunale di Belgrado e a Mostar nel 1970. E fu proprio a Mostar, splendida città dell'Erzegovina mortalmente ferita nella guerra Jugoslava dei recentissimi anni Novanta, che Turci sirecò a più riprese a partir dal 1965 invitato dall'editore Ico Mutevelic, geniale promotore di scambi culturali tra le due coste adriatiche. Negli anni in cui "di là" s'andava pochissimo, e le ragioni principali della maggior parte di coloro che vi si recavano avevano poco o nulla a che fare con la cultura e l'arte, l'iniziativa di Mutevelic si screzia di tinte straordinarie.
L'atelier di Giulio Turci (foto Giulio Turci)

L'atelier di Giulio Turci (foto Giulio Turci)

Aveva infatti compreso con decenni di anticipo ciò che da noi uno smagritissimo drappello di intellettuali solo più tardi capì, e cioè che la separatezza tra mondo slavo e terre italiane, e tra l'Oriente adriatico e mediterraneo e l'Occidente europeo, è fatto recente e di natura esclusivamente geopolitica, che con l'humus lentamente depositato dalla storia non ha nulla a che vedere. E non dimentichiamo che Mostar, a pochi chilometri dal mare, sta, sull'altra sponda, esattamente dinanzi a Porto Civitanova Marche. Federico Zeri - il cui catalogo della Pinacoteca di Zagabria pubblicato negli anni Ottanta fece da noi l'impressione di un testo scritto da un visiting professar invitato su Marte - ricordava in certe sue conversazioni di aver visto , "sparse per di là", opere riconducibili alla pittura riminese del Trecento, eseguite da anonimi pittori itineranti in Adriatico. E basterebbe poi fermarsi ad Ancona, e ammirarvi lo splendido portale quattrocentesco della chiesa di Sant'Agostino, edificato dal dalmata Giorgio da Sebenico; ma anche leggere l' interessantissimo libro di Francesca Chieli , edito a Firenze nel 1993 (La grecità antica e bizantina nel! 'opera di Piero della Francesca), per constatare che i rapporti tra le due rive adriatiche erano ben fitti ancora nel XV secolo mentre numerosi resti di marmi romani, distribuiti in siti dalmati , offrirono modelli , forse tramite disegni , per talune soluzioni architettoniche nella pittura di Piero della Francesca. D'altra parte i viaggi compiuti da Turci a Mostar in quei lontani anni Sessanta e in quell'Oriente d'Europa da noi tuttora negletto, non possono non rammentare , insieme aIl'eccellenza della figura di Ico Mutevelic, la straordinaria postura mentale in tutto "politicamente scorretta" di quell'insuperato periegeta che fu Ciriaco d'Ancona che , nel remoto 1452, in pieno assedio turco di Costantinopoli , anziché schierarsi coi bizantini, come sarebbe stato logico per un umanista italiano, s'era invece messo a istruire il ventunenne Mehemed II leggendogli Laerzio, Erodoto, Livio, le cronache dei papi , degli imperatori, dei re di Francia e dei Longobardi. Per l'anconetano l'Oriente e l'Occidente erano un'unica cosa, e così pensava anche Giulio Turci , che, con quella rarissima intelligenza che non "discrimina" ma "ingloba", continuò fino alla scomparsa a dedicarsi a importanti viaggi. Fu in tutta l'Europa, amando la Grecia e la Spagna; andò in Algeria, a Tunisi, a Malta, in Africa più volte, e in Russia, a Bangkok, a HongKong. Da ciascun luogo l'artista riportava incalcolabili esperienze, ma soprattutto dall'Africa, imbevuta di silenzio perfetto, dove il pittore trovò l'eletto sentimento del vuoto, vicino ai suoi violoncelli senza corde, così analogo alle sabbie zitte tante volte dipinte. E fu in Kenia, nel gennaio del 1978, che Turci volle recarsi di nuovo, incontro a un destino già scritto in quell'altrove di cui sempre aveva percepito il battito muto.
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Forme
E' stato più volte detto che l'incontro con Renzo Vespignani, avvenuto a Santarcangelo nel 1947, fosse stato di un certo risalto per il progresso artistico di Giulio Turci: ma a quell ' appuntamento, che generò nel pittore un'irresistibile attrazione per l'inchiostro di china, per i pennini carichi di nero e confitti sui fogli quasi come bulini su lastre, l'artista approdò già dotato di ben definite e penetranti riflessioni sull' arte figurativa, fotografia e cinema inclusi. Una piccola tavola del 1946, il Ragazzo nel vecchio paese (cat. l), è prezioso compendio di preferenze, orientate non meno sulle spente tavolozze di un Carrà o di un Sironi degli anni Venti che su una sentita vocazione per volumi e forme quattrocentesche, che poi erano fondamento al rigore formale di ambedue quei grandi pittori. Masaccesco o pierfrancescano si dichiara infatti il pensiero postulato dall ' obliqua teoria di case e palazzi in salita sui lunghi gradoni; ma anche il giovane, fermo dinanzi a noi sul limite del quadro , è tuttavia assorto come certi silenziosi angeli di Piero della Francesca, come l'adolescente in veste rubino nella tavola a Williamstown che, analogo al ragazzo di Turci, sta sulla soglia del dipinto per introdurre a indicibili liturgie di misteri. Certo, l'enigma cui sembrano alludere i toni d'oro brunito e l'incerta ora del giorno, che insinua le ombre tra archi scuri e finestre buie nella contrada deserta di Turci, non è illustrato da sacre figurazioni, e rammenta piuttosto certi scorci e vie e case disabitati e sospesi in un tempo senza azione, così come si trovano impressi in talune memorabili tarsie del Quattrocento, ancora custodite tra Romagna e Marche, a Rimini ai Santi Bartolomeo e Marino, a Pesaro in Sant'Agostino. Entrambe evocano nette cadenze di prospettive albertiane o di Piero della Francesca, e ad esse Turci sembra incline a protendersi, anche nella scelta di colori variamente modulati sui ricercati fraseggi castani dei legni. Ma dei commessi lignei il pittore non menziona tuttavia l'arcana levigatezza mentre si orienta su una materia già ispessita e generosa , aggredita da spatole piccole e gravi, che sembra desiderino rivolgersi piuttosto al varco disserrato da Morlotti su quella materia "intesa come punto generante della realtà" (Testori), che trasale infatti e si stipa con severo furore tra i vegetali inscritti da Turci nel minuscolo quadro dedicato alla moglie, eseguito nel medesimo 1946. E per lunghissimi anni, ma soprattutto nel decennio dei Sessanta, l'artista si consacrerà al rovente scrutinio della sostanza pittorica, con una schiera di terre grigie, ocra, rosa, celesti, argento, lilla, oro, ruvide, scabre, graffiate, assalite da spatole vigorose o distese con pennelli energici, ma sommesse di lumi spenti, o splendenti come polvere trafitta dal sole: il tutto messo a dimora nei suoi soggetti "in figura". Perverrà così a un equilibrio di rara elezione dove quella e non altra stesura pittorica sarà l'unico stile necessario a esprimere l'invenzione dell'immagine e la sua poetica, a suggenre una materia dinamica e germinante posta a servizio di immote e silenti iconografie affinchè meglio s'accenda, con l'unione di questi apparenti contrari sigillata nelle opere, l'arcano ermetismo di cui s'imbeve tutta la sua vita immaginativa. "Quella resistente virtù vitale ch'è lo stile", scriveva D'Annunzio, e così riprendeva Contini per Longhi; mentre "lo splendore dello stile non è un lusso ma una necessità", ricordava Cristina Campo da Léon Marie Bloy. A legger poi le date scritte su numerosi inchiostri di Vespignani, l'antologia espressiva dell'artista romano s'imponeva tra il 1943 e il 1946 con la violenza di forme stravolte e decomposte, grida di dolore ferino, grottesche putrefazioni, macene, relitti: nulla insomma che avrebbe potuto carpir l'intesa di Turci, già proclive a osservare invece le difficili epifanie di ore senza nome, sotto lumi che eludono anagrafi certe e con l'occhio educato anche sulle sintesi severe del bianco e del nero, alimentato dalla grande tradizione famigliare. Come ricordavamo, il padre, anch'egli di nome Giulio, era fotografo e negli anni Venti costruì la bella Sala Eden, che fu il primo cinema a Santarcangelo, rimasto attivo per oltre mezzo secolo. L'artista dunque si nutrì, oltre che di pittura passata e contemporanea, anche di cinema, l'arte nuova dall' irresistibile destino, eccezionale mondo di inedita figurazione. Certi acquerelli del 1947, eseguiti col pennello inzuppato di china su retro di locandine di film, sembrano affacciarsi su un percorso di cinema europeo, che da Jean Renoir approda a Visconti di Ossessione (1943), ma comprende anche il pnmo Antoniani dei sopralluoghi sul Po (1943-'47, e 1956- '57). La decrepita solitudine che corrode la facciata della trattoria di Giuseppe Bragana in Ossessione parrebbe discendere poi dal "réalisme lucide" di Eugène Atget (Bordeaux, 1857 - Parigi, 1927), che dal 1899 fino alla morte fotografò una Parigi deserta e minima, sdrucita e remota, lontana dai fasti anche calligrafici della mondanissima belle-époque. I suoi clichés furono acquistati da grandi artisti: Braque, de Vlaminck, Utrillo, Matisse se ne ispirarono o li studiarono per le proprie opere. Ma lo sguardo spoglio di enfasi e retoriche, attento non meno ai vicoli consunti che a personaggi di marginalissimo servizio (Il venditore di paralumi, Cristoph A. G. Lunn Collection), sarà poi motivo di intensa riflessione figurativa anche per i grandi maestri di cinema francese, come appunto Jean Renoir da cui s'avviò Visconti con l'aiutoregia di Parte de campagne (1936). Dalla Francia dunque, da Renoir o da Carné e dalle premesse di Atget, parrebbe derivare, via Visconti datato 1943, certa attitudine del cinema italiano a concentrarsi sulla sostanza pittorica di un reale secondario e discosto dai prosceni, che va a tradursi figurativamente in paesaggi desolati, in muri screpolati, in personaggi oscuri e negletti. Tale è dunque la realtà anche per Giulio Turci fin dal '41, allorché proprio sul retro di un ritaglio di locandina cinematografica per un film italiano di ordinaria evasione (La granduchessa si diverte, direzione generale di Luciano Doria), dipinse a contrasto La bottega delle biciclette, un interno affastellato di ruote, cerchioni, gomme, grezzi mobili da lavoro, dove il modestissimo operaio in ribalta, alle prese con una camera d'aria, sembra trattener qualcosa dell'epica ruvidezza d'un Jean Gabin, come fosse un proletario Efesto sor- preso nella sua ferrosa fucina. E con il Figaro Populaire di Atget (Arnold H. Crane Collection), e con la Trattoria di Visconti, con quelle logore solitudini, Turci parrebbe dichiarare alleanze in Tre dietro il vetro, del successivo 1947, dove si vede anche, come in Visconti, una vecchia bicicletta appoggiata al muro, solitario relitto di umili viaggi carichi di chissà quali ignote storie umane. D'altra parte si può vedere quanto quel cinema alimentasse anche lo sguardo che Michelangelo Antonioni andava posando sui luoghi del Po: si confrontino, con le analoghe immagini di Visconti e Turci, le soluzioni formali impresse nel fotogramma scattato dieci anni più tardi, nel 1956-'57, al Caffè Vescovi di Contarina, al tempo delle ricerche per Il grido, un tono che si decanterà anche nell'obiettivo di Wim Wenders, come rivela, tra le altre, una posa scattata decenni dopo a Potsdam (Potsdam/mi richiamò il ricordo di Lisbona). Aggiornatissimo dunque anche sui timbri di generale poetica figurativa d'inizi anni Quaranta depositata in grandi diffcili film, Turci sembra così dichiarare un'assoluta equivalenza tra cinema e pittura. E va detto che non a caso Turci si protese verso Visconti e i francesi, poiché non potevano non attrarlo le asciutte narrazioni e l'elusione di patetismi, con l'unica deroga viscontiana di Bellissima, tuttavia del 1951. Sarà poi da definire meglio in cosa Turci sarebbe "felliniano", come anche si è sentito genericamente dire del pittore, visto che coloro che lo affermano e anche ne scrivono non portano argomenti né forniscono prove a confronto, regola-base per qualsivoglia pur minima esegesi. Poiché, al buttar solo una veloce occhiata agli anni iscritti su dipinti o disegni di Turci, troviamo che sono del 1952 le immagini novembrine e desolate di Grand Hotel riminesi e pescivendole m bicicletta e bimbo con aquilone; e sono drammatiche le Donne del mare, mentre appartangono al 1955 lo studio per un Venditore di palloni e il dipinto con Barche sulla spiaggia; al 1958 un disegno per un Uomo con gli aquiloni, e al 1959-'60 le spiagge assolate o grigie di solitudine, tutte atmosfere che forse possono rammentare Amarcord, che però reca la data del 1973, ben vent'anni dopo la redazione di quelle chine di Turci. E comunque, in generale, analogia di soggetto non significa affatto somiglianza di stile, come benissimo leggeva Duilio Cavalli nel 1972: "Anche le 'donnone' [di Turci ] che spingono le biciclette con la cassetta del pesce, hanno un qualcosa di profondamente umano, di dolce, che caratterizza la donna romagnola con la sua femminilità e il suo orgoglioso amore. Una scoperta, questa, che pur con lo stesso soggetto, ancora non ha fatto nep- pure Fellini". E viene il sospetto che il "fellinismo", inopinatamente citato per Turci da taluni, sia invece un "amarcordismo" tout-court, avventatamente evocato dimenticando le date, ma anche rifilato a tutto ciò che fa Grand Hotel, mare a novembre o donne extra-large-size. Lo stesso Fellini, con la formidabile intelligenza e l'ammaliante ironia di cui era ricolmo, non capiva cosa volesse dir "felliniano" (ora forse lo capirebbe meglio, visto che, post mortem, c'è anche qualcuno che, non riuscendo a far di meglio, lo ha fatto diventare una marca vinicola di Romagna): l'artista riminese è infatti patetico e straziante ne Lo sceicco bianco, I vitelloni, La stra- da, Le notti di Cabiria; dolce, irridente e crudele ne La dolce vita: onirico e visionario da Otto e 1/2 in poi, ma anche struggente, grottesco e sbeffeggiante, aristocratico e plebeo, carnale e spirituale, astratto e concreto, corporale e cerebrale, e avanti alla ricerca di tutti gli ossimori possibili. Nella travolgente mistione dei contrari, il regista sembra precipitare la secolare vocazione al contrasto impressa nell'anima d'arte della Romagna di costa, che è greve e lieve, ruvida e dolce, commossa e austera, criptica e solare, dove tutto brulica, si cerca, s'aggrega sulla soglia del mistero poetico e dentro una nostalgia, un sentimento del ritorno dolente, di cui Fellini è immenso portavoce. Ed è irresistibile annotare come l'etimo di tutto ciò risieda ben riposto tra le recondite pieghe di una remota storia di Romagna, bizantina e ravennate delle origini, dall'illimitato tortuoso e non presagibile corso: "La storia di nessun altro stato [come quello bizantino] mostra la stessa unione di contrari, né quella di alcun'altra cultura la stessa unione di materiale e spirituale. Il dualismo è la sua nota dominante". E' indubbio tuttavia che la percezione del tempo sospeso, il senso dell'attesa, lo sguardo rivolto a carpire la bellezza là dove parrebbe esserci solo inerte desolazione, siano valori poetici distintivi non meno di Fellini che di Turci: ma in entrambi derivano dall'indole di certa schiva e impeccabile pittura riminese che in pieno Settecento, seguendo le molte ombre e la poca luce rannicchiate tra scaglie di pesci e piumaggi d 'uccelli, seppe espnmere, con le memorabili nature morte di Nicola Levoli, quale mistero , quale eternità si addensino tra le ore opache di giorni qualunque, negli angoli dimenticati di stanze disadorne e sperdute. C'è poi chi, come Antoniani, nativo della metafisica Ferrara, accoglie una figurazione rarefatta, spoglia e ferma, che parrebbe rinnovare, quanto a etimi, i vuoti spaziali e la nitida politezza infissi nelle lontane prospettive del Quattrocento, lignee o pittoriche che siano; ma anche, più indietro, nell'immoto inattingibile silenzio dei mosaici ravennati, chiusi e inaccessibili a qualsivoglia corsiva semplificazione. Turci è erede di questa di questa lunga vocazione della Romagna padana e adriatica. Predispose sentieri intramati di silenzio, di enigmi tenaci, di dimesse liturgie di poche cose, storie senza fatti ideate a svolgersi alla deriva tra spazi abitati da geometrie latenti, tra dune basse e aria di scirocco, tra molli calure e cieli bollenti di grigi. Pittore ermetico e zitto, artista non fabulatorio , è, come Antoniani, serrato all' accesso di traduzioni facilitate. Colori spenti, aria spesso immobile, i suoi personaggi stanno fermi e soli su battime deserte, volti e gesti non esprimono partecipazione ad alcunché. Quelle figure sono indifferenti anche all'aria afosa e umida, si lasciano vivere, non sono agite , accolgono il destino e aspettano, come inerti Watteau del Novecento incontrati sulla soglia di un pellegrinaggio a Citera. Ma se l'azione non c'è, questo non significa che non accada nulla. Anzi: donne, uomini, bambini, palloni da spiaggia, ombrelli, sedie, armadi, impalcature di ferro, grandi orologi, proprio in quanto consapevolmente dipinti come fossero muti appartati geroglifici, sono segni di grande dinamica interiore: "un silenzio abbandonato è ristagno: un silenzio affermato è pausa - puro intervallo - anche se infinito". Gli orologi sono fermi, i violoncelli non hanno corde e talvolta s'adagiano riposti su scansie d'armadi socchiusi, che anche proteggono memorie di sguardi sul mare, come fossero privatissime wunderkammern dell'anima: è il clima di Federico nello studiolo d'Urbino; è lo studiolo delle Pause d'Isabella Gonzaga a Mantova; sono le tarsie di Rimini e Pesaro, è la contemplazione del vuoto, è cifrata poesia funebre, estatico supremo memento mori.
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Per la pittura di Giulio Turci da "Omaggio a Giulio Turci (1917-1978), Una Storia Adriatica
A un anno di distanza dalla prima grande mostra dedicata a Giulio Turci e promossa, con la cura di chi scrive, dall’Associazione Sigismondo Malatesta (nella Rocca Malatestiana di Santarcangelo di Romagna) e dalla Biblioteca Classense di Ravenna (nella Galleria della “Manica Lunga”) vedo che la figura dell’artista continua a sollecitare riflessioni. (1) E certamente seguiterà a esortarne, svincolata com’è la sua pittura dalle ansie dell’attualismo, che furono (e sono) da annoverare tra le principali dittature cui fu sottoposta l’immaginazione occidentale dall’Ottocento in qua. Nell’osservare tutte insieme le sue opere, si poté toccar con mano quanto pittura e grafica di Turci intessano memorie quattrocentesche e realismo della fotografia francese di Atget, che transitò nel cinema di Renoir e approdò nelle prime opere di Visconti e Antonioni; ma anche intramino pensieri dispiegati su Piero della Francesca e Carrà, su Sironi e le materie sofferte di Morlotti, su Morandi e le tarsie romagnole del XV secolo, intrecciando staticità bizantina e mondi vuoti degli americani Sheeler e Hopper. Ne consegue che l’arte di Turci è senza tempo, non s’intrappola nel contingente né nella tendenza, ma nemmeno elude il racconto né schiva la “situazione”. Tuttavia questo cucire trame con personaggi e interpreti immobili in mondi bassi, spogli, remoti, consunti, passa al filtro di uno stile non realistico, si deposita in materie tormentate, in colori appassiti, in sofisticate stesure di grigi, ocra, rosa, celesti, argento, lilla, oro, mentre le immagini sospendono in boules vuote d’azione e prive d’atmosfera proprio quelle storie che stanno rappresentando. Se l’esito è dunque sempre narrativo, il procedimento è invece astratto, imbevuto fin nella più riposta fibra dell’intelligenza della materia in sé, della rovente percezione del dinamismo oscuro e germinante delle terre intrise di natura. Ne discende un’arte cifrata, elusiva, reticente, ermetica, dove i simboli s’acquattano nell’apparente o fuggono a ripararsi altrove, imprendibili, polimorfi e misteriosi come stille di vapore mercuriale. Attraversate da cima a fondo da brividi trascendenti, le opere di Turci non si sottraggono tuttavia al gioco, ma considerano anche giostre arrugginite, palloni colorati di tinte flebili, altalene cigolanti in riva al mare; ma il “gioco, quando è vero gioco, è sempre confinante con la metafisica” (Piovene di Bioy Casares). Sicché il libro figurato che Turci scrisse per tutta la vita non è altro che il racconto fantastico di una segreta avventura, un romanzo di fantascienza tanto più enigmatico quanto più nutrito di forme e climi da tutti riconoscibili, salvo poi inoltrarsi in una dimensione dove lo spazio sostituisce il tempo e il congegno che ne regola il destino non è un plot fenomenologico. La realtà di Turci è più mentale che fisica, ma terra anch’essa, anch’essa “corpo celeste, o oggetto del sovramondo” (Ortese): una scoperta che in uno dei quadri più delicatamente sbigottiti del pittore, che è l’Allunaggio del 1968, si trova a fare uno sparuto gruppetto di persone scaricato chissà come sulla Luna, da dove guarda con silenzioso stupore una grande terra azzurra e bianca sospesa nel vuoto e nel buio: La terra vista dalla luna titolava Pasolini un suo film del ‘67. Ma di misteri e sospensioni è ricolma l’arte di Romagna: o meglio della Romània esarcale che depositò nel cuore dei secoli forme immote, arcane, mute, guidando la mano di tanti artisti a comporre immagini non effusive, non assertive, asperse di imprendibili melanconie e prive d’azione: una lunghissima storia della pausa e della sosta dove, più di qualsivoglia dinamismo, si concentrano brucianti esperienze e avvengono ardenti prodigi di conoscenza: si pensi a Giovanni da Rimini e a Piero della Francesca al Tempio Malatestiano. Turci amò allo spasimo i mosaici ravennati e questi pittori, in una Romagna peraltro da sempre vòlta a Oriente, dove l’Adriatico, che è il mare orientale d’Italia, il Lago Greco degli antichi, portava da Rimini in Grecia e nel Mediterraneo le ambre baltiche lavorate dagli Etruschi a Verucchio; recava a Rimini nel II e III secolo dopo Cristo culti egizi di Giove Ammone e Dolicheno, nonché una rara statua del tempo di Psammetico II; vi sbarcava poi, nel IV secolo, maestri museari della Sicilia africana; per non parlare di Ciriaco d’Ancona che, veleggiando in Adriatico, recapitava a Sigismondo Malatesta notizie dirette dal Peloponneso, dall’Asia Minore, dall’Egitto, mentre il Signore di Rimini diveniva cugino dei Paleologi di Costantinopoli nonché geniale interprete e seguace delle culture sapienziali ed ermetiche di Bisanzio. Ma da dove provenivano in Turci, oltre che dalla sua anima, quell’intimismo e quella melanconia mai nostalgica; quali sono la fonte e la strada che lo portarono a rendere fatto culturale un fatto individuale? Qual è l’origine di quel sentimento della fine, della soglia e del relativo, assai più vicino al sense du désespoir di Leopardi che ai commossi palpiti di Pascoli? Quale la discendenza di quell’attenzione mai sentimentale, e tanto meno compiaciuta, a tutto ciò che è umile, modesto, feriale, spoglio, dimenticato; quale l’etimo di quello sguardo sostanziato di freddo trattenuto furore, di passione mentale riscaldata dalla gran fiamma della ragione, di virile pietas che mai inumidisce l’occhio, sempre lucido, solitario, disincantato? Tutte le immagini di Turci sono nature morte, Stilleben, vita silente, oggetti di ferma spossati nel dimesso splendore, sfioriti tra i sussulti di una materia che trattiene l’eco di antichi sfarzi lacerati dalla storia, sofferte memorie di un passato andato in cenere, frammenti dispersi di una Waste Land con cui “ho puntellato le mie rovine” (Eliot). Ci fu allora chi insegnò a tutta la Romagna, fino al cinema di Fellini, fino alle poesie di Raffaello Baldini, Tonino Guerra, Nino Pedretti, il canto minimo, lo sguardo puntato a scrutare poesia, a vedere bellezza negli angoli dimenticati di stanze disadorne e sperdute: e si dovrà risalire al Settecento, e dovremo soffermarci su Nicola Levoli. Mettendosi a seguire le molte ombre e la poca luce rannicchiate tra scaglie di pesci e piumaggi d’uccelli, Levoli dipinge il crepuscolo, confine ineluttabile alla notte. Tanto più alta la sua poesia, quanto più scarne le parole e le cose cui affidare la voce, sommessa rapsodia di poche note smorzate sull’ombra, e sul quel po’ di luce rimasta sulla soglia del buio. Impastando scarsi pennelli con poco colore, Nicola non poteva sapere che di tutto ciò stava dipingendo la memoria, o meglio stava imprimendo sulla tela l’odore e il sapore di luoghi riposti e silenti, invisibili alla ribalta, retrocucine buie, fondachetti vecchissimi, poi scomparsi da tutte le case e dalla vita. E con loro spariti i cortili sbrecciati, i mattoni decrepiti, i muschi sconnessi, i licheni corrosi, le voci di giochi semplici, i lunghi passatempi tediosi tra le caldane estive, il ronzio dei mosconi, le parole non usurate, il tempo lento, le ore molli. Tutto pulito, abraso, spianato. Tutto uguale. Tutto perduto. Proust dirà:“Ma quando di un lontano passato non rimane più nulla, dopo la morte delle creature, dopo la distruzione delle cose, soli e più fragili ma più vivaci, più immateriali, più persistenti, più fedeli, l’odore e il sapore permangono ancora a lungo come anime a ricordare, ad attendere, a sperare, sulla rovina di tutto, a sorreggere senza tremare - loro, goccioline quasi impalpabili - l’immenso edificio del mondo”. I quadretti di Nicola sono queste “goccioline quasi impalpabili”, imbevute della memoria del tempo interiore, inzuppate di ore senza misura, che continuano a pulsare in quelle poche piume, in quel po’ di mondo inerte e infinito. Scavate nel silenzio, le cose di Nicola si cercano, si chiamano, s’incontrano, talvolta s’assiepano, talaltra diradano su tavole, mensole, ripiani. E’ una frontiera popolata da animali morti, o da animali vivi e fermi, o da oggetti abbandonati, l’uomo non c’è e non sai se è appena partito o invece sta per arrivare, niente si muove e tutto aspetta. Tutte queste cose trattengono la memoria della loro vita, ma stanno ancora su questo mondo, non sono diventate altro, anche se in tutte respira qualcosa di sfuggente e sconosciuto, che è forse una notizia di quell’eterno che di là le attende: così come accade ovunque nella pittura di Giulio Turci, dove ritroviamo quella stessa percezione della soglia, il medesimo enigma che frastaglia il confine su cui Levoli indugiò per tutta l’esistenza. “Tutto ciò vi sembra ora bello da vedere perché a Chardin apparve bello da dipingere. E gli sembrò tale perché lo giudicava bello da vedere”. Marcel Proust così leggeva le nature morte, frutta, animali, pesci, utensili dipinti dal grande pittore francese. Vorrei modellare le sue parole su Nicola, Chardin di Romagna, che a tutti i più alti intelletti dell’Adriatico futuro insegnò l’osservazione dell’ordinario, del consueto, dell’insignificante, la cui traduzione in pittura avvenne con mezzi altrettanto scarni, ugualmente ridotti, gli unici in grado di rivelare quale mistero, quale eternità si addensino tra le ore opache di un giorno qualunque, dove Turci per tutta la vita inabissò il suo sguardo bruciante di nera ossidiana. Ma da dove proveniva sia in Levoli sia in Turci quell’indole comune che li spingeva a una pittura misteriosamente spoglia, dove l’imperscrutabile solitudine dell’oggetto, vuoi cosa, vuoi persona, par messa tra virgolette a comunicare ben altro? L’inattingibile silenzio delle loro opere volge in poesia brividi arcani, soffi misteriosi, folate ermetiche ed esitanti bisbigliate sul tremulo confine del non detto, come in Chardin, come nel cosiddetto “Magini” di Fano, che poi chissà chi è. Non è difficile immaginare come l’origine di questa particolare inclinazione sia anch’essa da cercare nella lunghissima storia romano esarcale di Romagna, che nel tempo generò una lenta sedimentazione di complicate attitudini, spesso imbevute dalla travolgente vocazione bizantina al simbolo, dall’irresistibile propensione al codice,alla cifra, alla metaforica trasposizione della realtà, prendendo spesso la via anche del crittogramma, del segno nascosto sotto altri segni, del continuo spostamento di significato che troverà concordi anche gli islamici nati in terra bizantina e che in Adriatico trovò il proprio insuperato emblema nel Tempio sigismondeo di Rimini. E’ da credere che i silenzi chiusi di Levoli sarebbero piaciuti agli orientali, se fossero andati a visitarlo: così come il mondo di Chardin pare sollecitasse l’attenzione degli Ottomani. Cosa cercava Mehmet Efendi, tesoriere dell’impero turco e ambasciatore straordinario del sultano Mahmut I, in visita nel dicembre 1741 allo studio parigino dell’artista? Due secoli dopo, l’enigmatico mondo di Levoli trasmigrerà dunque in quello di Turci, che riveste di moderno disincanto quell’antica criptata astrazione. Fu perciò inevitabile che Turci piacesse molto all’Est: invitato dall’editore Ico Mutevelić, l’artista dal 1965 in poi si recò più volte a Mostar, splendida città dell’Erzegovina mortalmente ferita nella guerra dei recentissimi anni Novanta. Nel periodo in cui “di là” s’andava pochissimo, e le ragioni principali della maggior parte di coloro che vi si recavano avevano poco o nulla a che fare con la cultura e l’arte, l’iniziativa di Mutevelic si screzia di tinte straordinarie. Aveva infatti compreso con decenni di anticipo ciò che uno smagritissimo drappello di intellettuali solo più tardi capì, e cioè che la separatezza tra mondo slavo e terre italiane, e tra l’Oriente adriatico e mediterraneo e l’Occidente europeo, è fatto recente e di natura esclusivamente geopolitica, che con l’humus lentamente depositato dalla storia non ha nulla a che vedere. E non dimentichiamo che Mostar, a pochi chilometri dal mare, sta, sull’altra sponda, esattamente dinanzi a Porto Civitanova Marche. Anni 1965-1976: Turci espose a Mostar, Sarajevo, Belgrado. Invincibilmente attratto dalle secolari sapienze depositate in quei magnetici luoghi di Erzegovina, di Bosnia, di Serbia, si lasciò rapire da Mostar, da Počitelj, dalle bianche moschee sulla Neretva turchese e sassosa; si tuffò, tra rocce e boschi, nelle acque sorgive del Buna a Blagaj, l’antica Bona romana, dove, avvinto all’altissima rupe, il monastero dei dervisci specchiava dal Cinquecento le proprie piccole forme. Al solo alzare gli occhi alla cupola dell’hamam, la volta traforata di stelle portava in cielo, mentre le tombe dei monaci Sarisaltuk e Ačikbaša ricordavano il mistico fondatore, il celebrato sufi Mevlana Gialâla ad-Dîn Rûmî, luminescente filosofo e poeta nell’anatolica Konya del Duecento. Allegra, certo, Mostar, oasi felice di tetti di pietra chiara alle pendici del Velež, del Čabulja, dello Hum, monti fatati di calcare grigio e violetto. Ma anche dolcemente sepolcrale, come sanno esserlo solo quelle città d’Oriente da sempre crocevia di convivenze, dimore di vita e di morte affrontate con nozioni e indoli certo dissimili e spesso collise tra loro, ma alimentate di sostanze assai più tacitamente analoghe di quanto la storia induca a dichiarare. Ecco allora le türbe, steli funerarie islamiche, intessere con le proprie astratte grafìe memorie leggere come filamenti di parole appena increspate da un soffio, mentre più in là gli alfabeti cirillici compongono, al modo bizantino, più solenni e austere cerimonie. E più lontano, a Radimlja, una grande necropoli dispiega gli innumerevoli cippi in antico serbo croato, unici resti dell’antica cultura di Bosnia, taluni scolpiti con figure umane arcaiche, immobili, frontali. E il ponte, poi, quel ponte: il most che dette il nome alla città e un destino ai suoi abitanti, i guardiani del ponte, i mostari. Turca dal 1468 al 1878, la città era il bianchissimo ponte, la “mezzaluna di pietra” s’identificava con la sua anima, era il capolavoro costruito tra il 1557 e il 1566 dall’architetto Hajrudin, discepolo del celeberrimo Sinan. Il ponte era soprattutto reale e simbolica congiunzione tra le due rive dell’Erzegovina, lambite da quella Neretva che porta notizie dirette dall’Adriatico, con cui s’abbraccia a cinquanta chilometri mitigando l’aria fredda della Bosnia montuosa. Non si poteva dimenticare, passeggiando su quel ponte, vertiginoso arcobaleno di luce bianca alto venti metri sul fiume, la storia di un suo congiunto, quel Ponte sulla Drina reso celeberrimo nel 1945 dal romanzo di Ivo Andrič (1892- 1975), nato nella bosniaca Travnik, premio Nobel nel 1961 e caposaldo della letteratura serbo croata. Il ponte sul fiume Drina a Višegrad, nella Bosnia orientale ai confini con la Serbia, evoca le vicende dei suoi abitanti dagli inizi del Cinquecento alla prima guerra mondiale, saldando i destini di musulmani, cristiani, ebrei. Andrič amava Mostar, trovò memorabile la sua luce, che l’accolse splendente al suo arrivo in città: “E’ questa luce che più mi ricorda Mostar”. Turci sprofondò in tutto quell’assorto incanto. Ascoltò i racconti fiabeschi su Derviš Pascià Bajazidagič che in mezzo ai frutteti di Predhum, sulla riva della Radobolja, costruì una moschea, una medrese, una scuola elementare, una biblioteca. Era il 1592, e Derviš cantava il ponte “sul magico fiume:/ la sua volta maestosa/ era l’iride multicolore”. Turci s’incantò nell’udire le memorie sul leggendario Muhabir Hasan, che nel Seicento, a Mostar, era un contesissimo interprete di sogni. Nella città di pietra lucente, di fiumi, di rocce, di soglie, di mistici dervisci, di turchi illuminati, di antichi bizantini e slavi dunque si sognava come ovunque nell’Oriente costantinopolitano islamico. E, come un velario impalpabile, quell’immaginazione affrancata dalla materia, ma misteriosamente creata dal corpo, avvolgeva i minareti di brume chiare e oscillanti, costeggiava le acque di smeraldo, lambiva le cupole convesse al modo bizantino, sfiorava i piccoli giardini. La casa di Svetozar Corovic era un luogo visitato da mille sortilegi. Nato e morto a Mostar (1875-1919), il narratore vi piantò nel cortile due grandi cipressi e un fico. Più tardi vi passò gli ultimi anni della vita il poeta Aleksa Šantić, anch’egli di Mostar, dove nacque e morì (1868-1924); vicino agli alberi di Corovic dispose un melograno, mentre una stanza conservava i suoi manoscritti e la sua biblioteca. Seduto sul bordo di una fontana di marmo, Šantić beveva caffè e fumava il narghilè. Osservava alberi e fiori offrirsi alle prime ore del mattino o rischiararsi di notte alla luna: “Sul fiume, come un cigno bianco/ ecco Mostar ornata di sole e di gemme/ fremente e tesa verso i culmini/dei minareti, sembra spiccare il volo”. E anche: “. . . in basso occhieggia Mostar coi lampioni,/ e dorme. La copre il manto della Luna”. Qui Turci sostò per anni: e per giorni e per ore non distolse lo sguardo da quel cipresso, dal fico, dal melograno. Quell’orto era ai suoi occhi una frugale Giverny d’Oriente, custodiva intatte impresagibili intermittenze del cuore, era pausa, sogno, poesia, attesa, convenuti nell’umana perfezione di pochissima natura lì raccolta da due commossi poeti dell’Erzegovina sincera. E Mostar, allora, e Počitelj, non potevano essere altrimenti che luoghi chiamati all’arte, e anche resistenti ai torvi precetti socialisti del secondo dopoguerra. Luogo d’incontro, tra Otto e Novecento, di pittori provenienti da tutte le regioni balcaniche nonché da quelle dell’Austria Ungheria, Mostar rappresentò una irripetibile enclave di passioni. Nella Galleria di Belle Arti (collegata a quella di Sarajevo) si potevano ammirare, tra i molti, l’indolente sprezzatura degli acquerelli eseguiti da Luka Šeremet (1902-1932) alla fine degli anni Venti, e la rotonda eleganza di quelli dipinti da Karlo Afan De Rivera dagli anni Quaranta ai Sessanta (era nato nel 1885); oppure, ancora, i paesaggi di Nedeljko Gvozdenović (nato nel 1902) composti dal 1950 sui margini di boschi invernali: poesia in grigio e in silenzio che non mancò di attirare lo sguardo di Turci. Poi arrivò Mersad Berber, il più giovane, del 1940. Turci lo amò molto per la sua ornata grazia bizantina, per la leggerezza da sogno orientale, per la compunta delicatezza delle sue figure, che sembrano rammentare certi preziosi volti dissotterrati dalle remote sabbie del Fayyum. L’Erzegovina ha sempre amato l’Adriatico pensandolo come suo mare, benché ne temesse, da turca, gli assalti veneziani, così come le lunghe coste italiane paventarono per lungo tempo gli Ottomani. E va detto che solo nel tardo Ottocento, da quel 1878 che sancì il passaggio di questa terra all’impero d’Austria Ungheria, l’Erzegovina s’aprì all’Europa: e si comprende che solo in questo clima potessero nascere i soavi versi giovanili di Jovan Dučić (1874-1943), quegli Jadranski Soneti (Sonetti Adriatici) composti nel 1898-1906. Ma certo l’Erzegovina accolse Giulio Turci come suo figlio non perché europeo o italiano, ma perché artista adriatico e orientale, che dinanzi a loro dispiegava un canto fermo e solitario, versi dolenti di memorie impolverate di luce e scirocco, di un interiore tempo bizantino, esarcale, contemplativo, stupefatto e spirituale come quello dei dervisci, quello mistico di Konya, cuore neoplatonico islamico che pulsò all’unisono con i bizantini antichi Gli artisti d’Erzegovina amarono Turci come fratello: nei suoi dipinti ritrovavano la disadorna intensità oracolare, il linguaggio spoglio e geroglifico, le perpetue cadenze simboliche che da sempre intridono l’anima bizantina- islamica-ebraica di quelle terre memorabili e vicine. Mentre alle origini di tutto questo, per Turci, non potevano sapere che ci furono anche le ermetiche penombre di Nicola Levoli, un frate, non a caso, un religioso adriatico, chino come i contemplativi dervisci di Blagaj sulle mute rivelazioni di pochissimo mondo infinito. “Ebbene, tutta quella ballata fantastica e lirica, quell’autentico capolavoro d’ispirazione consisteva in queste poche parole disposte in un ordine ideale e irripetibile: banco corallino, istante, eternità, foglia, e in una parola misteriosa e assolutamente incomprensibile: plumasseria. Folle di paura, rimasi seduto ancora un poco, rattrappito sulla cassa, poi annunciai a mia madre, con voce rotta dall’emozione: ‘Ho scritto una poesia’ ”. Così racconta Danilo Kiš in un indimenticabile passo del suo Giardino, cenere. E tutto, ora, è polvere: Mostar è un cumulo di desolate rovine. Non sappiamo con precisione cosa di quegli umani splendori sia restato in piedi, risparmiato dalla sconfinata tragedia: ma impietosamente le immagini che continuano ad arrivare fin qui dichiarano l’orrore assoluto. Il ponte, il sacro most, il cuore vivo dell’Erzegovina, è scoppiato sotto le bombe: al suo posto si spalanca ora una costernata, lugubre caverna d’aria. E anche l’Adriatico, già disteso a marezzare l’Occidente di Romagna e l’Oriente di Erzegovina, dopo Mostar, e la Bosnia, e il Kossovo e quant’altro di efferato possano produrre i viventi, non trasmette più su bianchi vascelli messaggi di consolante consanguineità poetica, ma trasporta, su sconce e lugubri barche, solitudini desolate, anime ferite, storie divelte, incalcolabili tragedie. Ma, a onta di tutto, Mostar vive: “La luce mi accolse all’arrivo a Mostar, mi accompagnò da mattina a sera e, dopo la mia partenza, rimase nei ricordi il tratto dominante della città”. La luce raccontata da Ivo Andrić non è solo fenomeno meteorologico, ma anche fatto spirituale,contemplazione della bellezza, chiarore neoplatonico irrorato di grazia; è il “nirvana di cristallo”, il cammino verso il sole di Mevlana Gialâl ad-Dîn Rumî; è il sole apollineo di Pletone, è vittoria sul buio, trionfo sulla morte, promessa di redenzione. Fu quella stessa radiosa trasparenza, che unisce e affratella, ad aver accolto Giulio Turci, che lì ritrovava la medesima luce perenne sigillata tra i marmi bianchi del Tempio Malatestiano. “Restate qui! Il sole di un cielo straniero/ non vi scalderà come questo vi riscalda”. Indifferente alle divergenze etniche o religiose, Aleksa Šantić esortava i musulmani a non abbandonare Mostar dopo l’occupazione austriaca di quelle terre poiché su tutti, islamici, ebrei, cristiani, discendeva la medesima luce, simbolo perpetuo di riscatto nella comune bellezza dello spirito. “Zora”, “Aurora” si intitolava non per caso la rivista letteraria di Mostar, di cui Šantić fu voce e anima intensa e mai dimenticata: e oggi, dopo il martirio, su Mostar ha preso di nuovo a sorgere un’altra umanissima aurora, assorta testimone di rinascita, sol invictus tornato a risplendere su quelle macerie luttuose e sulle umiliate e ferite acque adriatiche di Oriente e Occidente, nell’attesa che il giorno pieno tramuti quella cenere morta in viva ed eterna polvere d’oro.
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